Il viaggio

Il viaggio

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Fare il libraio, fare questo nostro “mestiere semplice”, come lo definì Carlo Alberto Chiesa nei suoi Ricordi, ha voluto dire, per secoli e secoli, nessun (o quasi) cambiamento nel sistema operativo. Oppure le innovazioni, veramente minime, erano delle vere e proprie migliorie lavorative lasciando attentamente fermi i sistemi di gestione e di ricerca del materiale: dalla gerla sulle spalle ai carretti su ruote, alle diligenze, ai treni, alle auto e via via… e uno dei punti focali era sempre quello: Il Viaggio.

Il Viaggio alla ricerca di libri, di conoscenze, di scoperte. Il Viaggio, preparato per settimane, con itinerari, appuntamenti e qualche deviazione di tanto in tanto. E proprio viaggiando tanto tanto io sono cresciuta. Da quando avevo 4 anni, almeno 2, 3 giorni al mese li passavo in giro per l’Italia o, più tardi, per l’Europa con il babbo. Era una cosa meravigliosa, una festa, un fantastico giro fantasmagorico tutto nostro: un modo per me per poter stare noi due a chiacchierare e a prendere in giro tutti (ahi ahi ahi, grande difetto che ci accomunava!); in effetti un dolce modo tutto suo per poter stare con me senza patemi d’animo. Questo iniziai, non a capirlo, forse più a intuirlo, un poco più grandina quando cominciai a sentire parlare, riferendosi a me, dalle maestre o da altri estranei, di “figlia naturale” (ma naturale come lo yogurt, come il tonno??), tanto che, seguendo il mio cervello ben bizzarro (chissà come lo catalogherebbe Tommaso Garzoni?), cominciai a preoccuparmi per gli altri miei amichetti, e cominciai a pizzicarli tutti. Nessuno mi sfuggiva: i nasini, le guance, le bracciotte, i sederini erano tutti per me. Tutti, logicamente, alla fine mi stavano lontano e mi guardavano male, ma per me era necessario vedere se loro erano di gomma. Per forza: se io ero naturale ed ero di ciccia, loro, che non erano naturali di cosa erano fatti?? Mah! Chissà mai quando gli elementi linguistici diverranno amici della ferrea logica infantile…

Comunque il viaggio mio più lungo lo feci a 5 anni quando dal mio Paese, Bazzano, ci trasferimmo a Bologna. Ventitre chilometri solo ma che vollero dire la fine della frequentazione costante dei miei giardini Garibaldi, delle panchine della scuola dove giocavamo a schiera, del meraviglioso cortile, della baracchina dell’Irma (vera goduria di dolcetti per noi bimbi), del profumo dei tigli, dei risvegli del sabato con i rumori del mercato, insomma di tutto il mio meraviglioso microcosmo dove i nonni erano il mio punto fermo, dove le campane scandivano le giornate sia di noi bimbi come degli adulti, di attese tremebonde delle 5 del pomeriggio quando sarebbe passato Rigo, la temuta guardia municipale, che controllava chi di noi aveva fatto arrabbiare in casa minacciando improbabili castighi, di estati passate sul fiume o di inverni lunghi lunghi passati a guardare i miei libri vicino alla stufa mentre la nonna raccontava storie di quando era giovane o storie di guerra ma con la fascinazione e la morale della fola.

Quello stacco, fu importante, drammatico, per me anche se per anni e anni l’elastico tenace e potente che mi legava alla mia terra mi ha sempre riportata “a casa”: tutti i fine settimana, tutte le estati, i Natali, le Pasque, i compleanni… sempre sempre a casa! Ma la vita impone altri ritmi, i nonni sono andati sulla collina, gli amici si sono “sparpagliati” anche loro e le mie scappate a Bazzano, da adulta, si sono fatte più rade.

Poi si invecchia. E chissà perché il richiamo delle radici si fa prepotente, i ricordi ritornano, il bisogno di ritrovare persone, luoghi, odori, sapori diviene pressante; e allora basta ricevere una lettera dove chi non si è dimenticato di te ti dice che i cinni del Campo dei Fiori si ritrovano il 2 ottobre: tu ci devi essere. Io c’ero, e ho rifatto quei 23 chilometri con la precisa consapevolezza che era quel viaggio il mio primo passo per un nuovo e vero ritorno a casa. Senza la paura di non riconoscere persone o di non essere riconosciuta, no, dai basta così poco: una cadenza nel parlare, uno sguardo, un modo di dire, anche un tic nervoso che improvvisamente rivedi e ti fa ridere…

Gli anni sono passati, dire che siamo grandi è un eufemismo, in statistica verremmo definiti “tardi adulti”, ma siamo sempre quei cinni ai quali basta poco per ritrovare intatti i valori nostri sui quali hanno appoggiato i nostri piedini ben saldi sulla nostra terra. E metti in conto tutto: di non rivedere qualcuno, di aspettare chi avrebbe detto la prima cattiveria (Oh puntuale come un orologio svizzero! E ti domandi: “ma che cappero ci guadagna???”, poi lo guardi e dici dentro di te “Ah beh sì sì… tutto torna…). Metti in conto di rivedere anche chi proprio proprio… Metti in conto di confondere i figli con il ricordo che avevi del viso del loro padre o della loro madre, ragionando poi che il tempo passa e quello, o quella lì non può essere, è troppo “giovane”. Eppure dentro si sente proprio che alla nostra laica Campostela siamo arrivati.

Ognuno di noi con i propri vissuti, i propri dolori o le gioie, ma questo bisogno di restare coesi, di ritrovarci, pur nelle nostre differenze ci dice davvero quanto profondi fossero i semi che i nostri avevano piantato per noi: certo non saremo tutti meravigliosi girasoli, profumate rose o maestosi alberi, fra noi c’è anche qualche crisantemo, qualche alberino mal cresciuto, qualche rosina selvatica piena di spine, senza profumo, ma nel Campo dei Fiori c’è posto. E tutti insieme si produce un gran bel colpo d’occhio! E tutti insieme si decide un piccolo aiuto (quello che si può) per altri che sanno cosa vuol dire l’appartenenza ad un gruppo, ad una terra, e che da lì non se ne vogliono andare nonostante il terremoto. Davvero, per questa appartenenza di gruppo e di terra (almeno per questa o forse solo per questa) siamo stati tutti fortunati.

A.F.

(per dire grazie ad Ezio Predieri, uno di noi che ci crede e si spende per gli altri)

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